
Voglia di stare ferma
ferma come l’aria
che ha perso il fiato
ogni respiro
ogni desiderio
e poi si e’ stesa
su un sedile d’altalena
in attesa
d’una spinta.
Tosca Pagliari ( agosto 2024)
Tutto scorre
e il tempo ci rincorre.
Tutto passa
e si dipana la matassa
della vita
con lillusione
che ogni cosa sia infinita.
Tutto scivola via
e nella gran confusione
ci sfugge quel poco
o quel tanto
che potremmo afferrare
se solo capissimo il gioco
che il mistero ci possa svelare.
Tutto va oltre
tutto si trasforma.
In un continuo divenire
non c’è più l’essenza di ieri
e di noi cosa resta?
Resta il passaggio
e nel passaggio l’incontro.
Siamo acqua di fiume
scorriamo e incorporiamo
tutto ciò che incontriamo.
Siamo acqua di fiume
trasciniamo e lasciamo
tracce di noi su ogni elemento.
L’incontro ci fonde
e ci cambia rimescolando
molecole di sentimento
d’idee, di simpatie
o antipatie
di umori allegri
o di sgradevoli rumori.
Tutto scorre
ma l’incontro resta
in un gesto, un discorso
una risata, un pensiero,
una condivisione,
un urlo, un sussurro,
uno sguardo,
una parola caduta bene
oppure di traverso
intanto che il tempo
tutto penserà a diluire .
Tutto scorre
ma non siamo mai soli
andiamo
come staffette millenarie
fondendo le nostre esistenze.
Andiamo
lasciando negli uni e negli altri
particelle indelebili
della nostra essenza.
Tutto passa e noi restiamo
restiamo nell’incontro.
Tosca Pagliari (30 maggio 2024)
La prima madre fu di carne
e ci donò a questo mondo
non si era da soli
si era in due
c’era chi nasceva
e c’era la madre.
E ci prese
ci accudì
ci guidò
in quel che ci apparve mondo nuovo
fuori dal ventre
finché
da soli
continuammo ad andare.
La seconda madre
ci farà rinascere
a un altro nuovo mondo
sarà madre
di un altro portale
e non ci troveremo
da soli
e il cambiamento
non ci farà paura.
Madre vita
madre d’altra vita
che nessuno
la chiami morte
perché nessuno muore
ma cambia
solo di mondo.
Tosca Pagliari
Il primo giorno di scuola, una bambina di nome Marta e un bambino di nome Piero erano seduti al primo banco e chiacchieravano tra di loro. Intanto coloravano la targhetta col proprio nome affiancata dall’immagine del supereroe preferito. La maestra gironzolava per la classe sorridendo, incoraggiando, aiutando, invitando al silenzio. Ad un certo punto, la maestra non richiamò più Marta e Piero perché aveva preso piacere a starli a sentire. Anche gli altri bambini dovevano aver preso piacere alla loro conversazione perché si erano tutti zittiti. Nell’aula si udivano solo le voci di Marta e Piero.
Marta aveva chiesto a Piero: “Ma chi sono veramente i supereroi?”.
Piero aveva risposto: “ Sono esseri dotati di poteri eccezionali, possono volare, hanno una forza straordinaria, possono diventare invisibili, possono trasformarsi, possono diventare di fuoco, possono…”
E fu così che Marta lo interruppe dicendo: “Certo che sarebbe proprio bello poter diventare anche noi dei supereroi! Io volerei dalla finestra e tornerei al mare”.
Piero continuò: “Io solleverei tutta la scuola e la porterei sulla spiaggia”.
Poi con un lungo e triste sospiro aggiunse: “Che peccato non essere nati supereroi”.
A questo punto la maestra si avvicinò e, con una voce molto entusiasta, disse:
“Non è così, siamo proprio tutti nati supereroi, tutti abbiamo dei grandi poteri”
Sentendo queste parole gli altri bambini smisero di colorare e sulle loro facce apparve un’espressione di grande sorpresa.
Intanto la maestra continuò a dire: “ Tutte le volte che aiutiamo qualcuno siamo un supereroe di bontà, tutte le volte che superiamo le nostre paure siamo un supereroe di coraggio, tutte le volte che doniamo qualcosa siamo un supereroe di generosità”
Infine concluse: “ E il supereroe più forte di tutti sapete chi è? È colui che rispetta e ama tutte le altre persone e tutti gli esseri viventi perché il super eroe più valoroso è il supereroe dell’amore. Perciò ognuno di noi può sviluppare questo meraviglioso superpotere per diventare invincibile” .
Tutti quanti i bambini applaudirono felici.
Tosca Pagliari
I miei pensieri viaggiano liberi
sono figli del mio animo
e dei miei libri
della mia crescita
e delle mie genti
ma poi nella mia mente
si sono rigenerati
e solo dal mio credere
e sentire sono rinati.
Adesso volano
ma sempre con ali di dubbio
in alto si librano
sorretti d’incertezza
perché va leggero
chi non ha un’unica ragione
e chi d’altri rispetta il pensiero.
Tosca Pagliari ( 25 aprile 2023)
Vado per i sedici anni. La primavera fa il suo dovere. Sono vestita leggera: minigonna blu a pieghe, maglietta a righe bianche e blu, collant velati, scarpe bianche modello ballerina con cinghietta laterale e bottone. La civetteria è una lunga collana di perle di plastica, una coda di cavallo e un filo di lucidalabbra. La zia è sempre elegante e la sua valigetta sempre uguale. Si parte in auto. Si va in clinica. Il regalo di questo giorno di vacanza da scuola è poter assistere da spettatrice ad un parto. Da quanto tempo non faccio altro che chiederlo! Ora pare che sia il momento. Che emozione! La promessa è di stare calma e in disparte come se non ci fossi. Devo testare il mio sangue freddo che se voglio iscrivermi a medicina è bene che sappia presto a che vado incontro, altrimenti è meglio cambiare idea subito. Io ho curato cani e gatti messi malissimo dovrei aspirare a veterinaria invece che curare gli umani. Ma sono così giovane, ho tante idee, il mio domani è ancora un foglio bianco dove posso scrivere di tutto persino l’inimmaginabile.
Il parto è una lotta tra gioia e dolore, due corpi con un’unica missione: la vita. La natura è un congegno perfetto: carne che dà carne. Strilli, respiri ansimanti, vagito, concitazione di gioia. Il bambino esce come un fantoccio bianco e ciondolante poi col pianto si colora e si anima. Dalla fessura dilata e sanguinante del corpo di donna continua ad uscire la massa della placenta. Può una parte così intima spalancarsi a tal punto ed espellere un altro corpo? Mi sembra un prodigio. Resto tutto il tempo ferma e zitta come in posa nel mio abbigliamento tutto bianco e blu sovrastato da un camice troppo largo e lungo. La mascherina nasconde il mio sbalordimento e la mia gioia: sono una donna, sarò una madre.
Oggi festa della liberazione, libero la mia natura di sfida selvaggia e mascolina che reclama diritti paritari tra i sessi, che nutre la rabbia di non essere nata ragazzo per poter fare tutto quel che vorrebbe senza restrizioni di sorta, così festeggio. Oggi giornata della Liberazione della Patria è anche la liberazione del mio io femmineo. Festeggio la conquista d’accettarmi come sono. Mi amo femmina e donna e madre in divenire. Non è stata una punizione, ma un dono la mia femminilità. Tutto il resto verrà da sé. Un altro paio d’anni e cambierà il “Diritto di famiglia” (1975). Altri anni ancora, altre conquiste.
E si va avanti , avanti ancora verso la libertà di essere donna, verso la liberazione di stereotipi e pregiudizi. Donna libera in una patria libera.
Tosca Pagliari
Dondolava un dente da latte, incisivo dell’arcata inferiore, e tanto lo smossi che lo estirpai anzitempo. Non ricordo se mi dissero di lasciarlo in pace e non lo feci o se nessuno si curò della cosa. Ci rimase un bel buco vuoto. Non c’era ancora il dente nuovo a fare cucù. Il buco si chiuse, i due incisivi si riaccostarono, chiusero lo spazio. Il dente nuovo quando si decise a venire fuori lo fece con grande dispetto e si piazzò ad uncino tra l’interno del labbro e la gengiva. Storto e fuori posto così era il primo dei permanenti, c’era già di che stare poco allegri, ma per fortuna non lo sapevo e non lo consideravo che insieme al dente mi si sarebbe storta la vita. Nessuno degli adulti che avrebbero dovuto prendersi cura di me valutarono la cosa. I bambini della mia cerchia non erano così attenti a certi dettagli, a scuola ci dovevo ancora andare. Poi caddero gli incisivi davanti dell’arcata superiore, quello credo sia stato un dramma per tutti i giovani umani, chi più e chi meno. Io di più, sicuramente. Ne vennero fuori due denti più grandi di me. Il mondo si fece di denti preoccupanti e non lo smise più. A sette anni, mia madre, sotto insistenza di mia nonna, mi portò da un dentista in città. Ricordo la strana poltrona su cui mi sedettero, le dita inguantate e le lucine che mi ficcarono in bocca, le innumerevoli prove di “apri/chiudi” e poi il verdetto: “Bisogna portare tutto questo in dentro e tutto questo in fuori”. La mia faccia doveva dirigersi in due direzioni opposte e mi faceva così senso di strano. Parlarono tanto il dentista e mia madre, ma io non sentii più altro, stranita nei miei pensieri che pian piano volarono via. Di quel che doveva andare in avanti e di quel che doveva andare in fuori fu riferito da mia madre a mia nonna, la quale sapeva già del volare del tempo, che a una certa età non sfugge a nessuno il volare del tempo. Così sentenziò che prima si provvedeva, meglio era. Ma mia madre, che già aveva i suoi guai, rispose che di tempo ce n’era anche troppo e che anche lei aveva avuto un dente fuori posto e che se l’era dovuta aggiustare spingendolo insistentemente col dito giorno dopo giorno. Fu allora che il mio più grande passatempo divenne quello di mettermi le dita in bocca in qualunque momento e non solo, ma anche penne e matite con grandi richiami della maestra. I compagni iniziarono a chiamarmi “Topo Gigio” ed io, che adoravo qual pupazzo animato che si vedeva in TV, ne imitavo con fierezza la voce altalenante tra i toni acuti e gravi.
Quando raggiusi i tredici anni d’età mia nonna disse che così non andava per niente bene e su quei denti si doveva intervenire che altri difetti non ne avevo e sarei potuta essere una giovinetta molto graziosa. Ci scommise centocinquantamila lire al mese della sua pensione sulla tecnologia ortodontica dei primi anni Settanta. Li spediva puntualmente ogni mese alla zia che da qualche anno mi teneva con sé. Mi misero un apparecchio mobile che con una chiavetta si apriva dal palato allargandosi sempre di più mentre un filo color dell’acciaio m’incoronava tutta l’arcata superiore. Parlavo come se avessi una patata in bocca, ma tutto sommato era abbastanza “fico”, come si direbbe oggi, in abbinamento ai capelli a caschetto, le camicie a fiori e i jeans a zampa d’elefante. Poi a scuola quegli affarini in bocca ce li avevano tutti i figli dei benestanti quindi sarebbe stato tutto ok. Tuttavia non mancava la cugina scettica sul fatto che certi denti “mostruosi” potessero aggiustarsi, la ragazzina della porta accanto che faceva notare che al dente di sotto ad uncino non si stava facendo nulla. Intanto nei mesi successivi i dentoni davanti rientravano allineandosi con gli altri, la faccia continuava a crescere e non sembravano più così tanto grandi. C’era d’andare ogni mese dal dentista; mi avevano insegnato la strada; ci andavo da sola o tutt’al più con la cugina che da scettica si era fatta curiosa. Ora non so di che professionalità fosse quel dentista di cui ricordo ancora perfettamente il nome, ma che sarà da tempo già sparito dalla faccia della terra. Non lo so, ma me lo chiedo. Ad un certo punto l’apparecchio iniziò regolarmente a rompersi sebbene lo trattassi allo stesso modo. Quindi doveva essere rinviato al tecnico e per qualche settimana restavo senza coi denti pronti a regredire alla situazione di partenza. Fu un andirivieni snervante tra una versione di greco e di latino lasciata per aria. Il dentista parlava a lungo al telefono col tecnico e una volta lo sentii dare appellativi poco piacevoli ai miei denti. Mio malgrado dovetti guardarlo così male che si scusò dicendo che ne aveva approfittato per parlare di un altro caso e non del mio. Fatto sta che smisi di andare dal dentista e nessuno se ne curò. Quando i denti s’imbruttirono di nuovo mi rinfacciarono solo che “peggio per me che non ero più andata dal dentista”, compreso mio padre che una volta alla settimana veniva a trovarmi . Divenne una colpa mia l’inesperienza del dentista e il lassismo di chi mi doveva tutelare. Intanto mia nonna, che aveva pagato tutta la cifra, non poté rivedermi per molto tempo visto che ero finita molto lontana da lei. Quando anni dopo poté farlo i miei denti non erano più neanche l’ultimo dei suoi pensieri.
Per fortuna la giovinezza andò avanti e, anche se ridevo grottescamente a bocca chiusa e cercavo il più possibile di prendere posa a labbra serrate, il resto di me andava molto bene. Pedalavo lunghe ore in bicicletta, praticavo sport, correvo, mangiavo di tutto ed ero in perfetta forma. Ci fu il tempo dei corteggiatori e del primo fidanzato che poi divenne la figura più importante di tutta la mia vita. Ci furono gli anni degli studi, dei balli, delle beghe amorose, dei pianti, dei sogni, delle disillusioni, delle paure, delle sfide…nel frattempo i denti se ne andavano per conto loro. Ogni tanto qualcuno con poco tatto me lo faceva notare, qualcun altro lo rilevava come una ineluttabile storpiatura alla quale mi ci dovevo rassegnare, qualcun altro ancora continuava a ripetermi che peggio per me che non mi ero fatta curare per tempo. C’era poi chi chiedeva, invece, come mai nessuno se ne fosse mai preoccupato di aiutarmi a risolvere la situazione. Avevo venticinque anni e mi sentivo condannata a restare così, pensavo che un giorno me li sarei fatti togliere tutti e fatti rimettere finti e perfetti. Quando, tra storie infinite di prendi e lascia, lascia e prendi, il fidanzato si decise che era ora del matrimonio e mise, come clausola indispensabile per la mia presentazione alla sua famiglia, il rifacimento dei denti. Forse oggi, col senno di poi, l’avrei mandato a quel paese, ma allora mi sembrò solo una cosa molto triste e molto necessaria da fare. Per fortuna, dico inoltre, perché in fondo non rimpiango nulla del marito che fu per me e della meravigliosi figli che ebbi.
Il dentista disse che era abominevole pensare di togliere tutti di denti ad una ragazza per metterne dei finti, ma che si poteva recuperare il tutto con un intervento correttivo. A venticinque anni mi sentivo già oramai troppo vecchia per un intervento del genere, invece mi furono assicurati ottimi risultati. Mi tolsero il famoso dente dente ad uncino e qualche premolare che fra l’altro, data la trascorsa mancata volontà di frequentare dentisti, si era irrimediabilmente cariato. Questa volta l’intervento fu molto mirato, anche se dopotutto un po’ tardivo lo era comunque. Tra apparecchi mobili, cuffie e un apparecchio fisso alla fine il risultato fu per me strabiliante. Avevo denti perfetti, tutti di una misura, allineati con una chiusura che non mi faceva più penare per cercare le mille pose più comode per riposare la bocca. Sorridevo finalmente vestita da sposa ed ero così felice. Insieme ai denti mi si era aggiustata la vita. Fu così che ne feci una filosofia: per essere felici bisognava ridere, per ridere bisognava avere denti perfetti; se i denti erano perfetti tutto poteva continuare ad andare perfettamente altrimenti …
Arrivarono i primi figli, misero e persero i denti, spuntarono i loro denti nuovi. Attentissima alle loro bocche li riportai dallo stesso dentista dei miei venticinque anni. Va e vieni tra una visita e l’altra, tra un apparecchio e l’altro i loro denti si aggiustavano e la vita scorreva tra mille problematiche economiche. Intanto i miei di denti avevano deciso di rispostarsi ancora una volta, non avevano ripreso la piega iniziale, ma l’occlusione era di nuovo in crisi e i mal di schiena collegati non erano affatto piacevoli. Le cose dal punto di vista lavorativo di mio marito andavano molto male, io, per assecondare le sue scelte passate, non avevo un lavoro sicuro, i denti si storcevano, la vita si faceva di nuovo amara. A costo dei più grossi sacrifici si dovevano riaggiustare i denti. Era la mia filosofia, non potevo fare altrimenti. Davo già qualche ripetizione per raggranellare qualcosa e le intensificai a più non posso. Avevo trentasei anni e di nuovo un apparecchio fisso in bocca, intanto studiavo anche per cercare di superare dei concorsi.
Mi tolsero l’apparecchio: i denti erano di nuovo uno splendore, avevo superato un concorso da insegnante, stava per nascere un altro figlio, la vita si riaggiustava!
Avevo cinquantaquattro anni, facevo l’insegnante, mio marito aveva trovato un ottimo lavoro, i figli più grandi si stavano laureando, tutto perfetto, più perfetto che mai. I miei denti invece stavano nuovamente cambiando assetto, non erano quelli dei venticinque anni e neanche quelli dei trentasei, ma li vedevo, che erano lì che cominciavano a non chiudere più bene, che stavano per riapparire niente affatto gradevoli. Nonostante non avessi mai smesso negli anni di portare un apparecchio di contenzione loro lanciavano un allarme. Ebbi paura, una paura irrazionale eppure certa, paura che la vita mi si rovinasse di nuovo. Non andai subito dallo stesso dentista incontrato a venticinque anni e che mi aveva salvato la vita ripetute volte. Era passato troppo tempo dall’ultima volta e per andarci dovevo fare molta strada. Negli anni, per i controlli d’igiene orale di routine, mi ero affidata ad un dentista più vicino a casa, il quale si era preso cura anche della dentizione dell’ultimo dei miei figli. Feci così e sbagliai. Sbagliai perché il dentista non tenne in seria considerazione un intervento ortodontico alla mia età, o forse perché non conoscendo bene la storia pregressa dei miei denti non capì bene come intervenire. Fatto sta che vedevo i denti che non si aggiustavano, anzi li vedevo quasi peggiorare. E peggiorò così tanto la mia vita che mio marito da lì a poco morì.
Quel che accadde intorno e dentro di me non lo voglio neanche commentare. Desideravo però rimettermi in forze per non abbandonare anch’io i miei figli così pensai che dovevo per prima cosa ripartire dai miei denti e aggiustarli. Mi rimisi in cerca del solito dentista che riuscì con molta perizia ancora una volta a riposizionare la mia dentatura. Sebbene nulla fosse più come prima, in tutti questi anni ho ritrovato la forza di andare avanti e di sorridere alla vita.
Tra poco compirò sessantasei anni. C’è stata la pandemia ed il look down. Mi sono riaffidata ad un altro dentista vicino casa. Ho dovuto, lo scorso anno, cambiare due capsule a dei molari. Da allora i denti si sono scombinati nuovamente. Non trovo pace a chiudere bene la bocca, non trovo pace dentro di me, mi guardo allo specchio e non mi piaccio. Sebbene accetti la mia senilità non accetto i miei denti. Il famoso dentista risolutivo di tutti i miei guai, a causa del look down, ha deciso che era il momento di andare in pensione. Tutti gli altri mi convincono poco, non mi conoscono, non conoscono gli incastri particolari della mia bocca e delle mie emozioni. I costi per me sono molto elevati e i risultati dubbi. Tra poco andrò in pensione anch’io e sarà una pensione da poco anch’essa.
Vedo la vita che mi si rovina di nuovo insieme ai miei denti. Soltanto che adesso siamo a capolinea, il futuro si fa breve e le speranze non sanno nemmeno di che tingersi.
Ieri nello studio dentistico di quel dentista andato in pensione, il nuovo dentista giovanissimo e molto garbato, dopo avermi controllato mi ha riferito che mi avrebbe fatto visitare dall’ortodontista . (Premetto che mentre in passato una sola figura professionale era in grado di curare e correggere i denti, adesso pare che si debbano necessariamente settorializzare.) Così mentre lui, in un’altra stanza, gli esponeva il mio caso, ho sentito una voce che rispondeva perplessa dicendo: -” Ha quasi sessantasei anni e vuole fare un intervento ortodontico!”
Sì, ho quasi sessantasei anni e vorrei i miei denti composti per sentirmi bene a questo mondo finché mi è dato di starci. Lo so che qualcuno avrà da ridere adducendo a mille altre peggiori disgrazie altrui e ciò non toglie la mia comprensione verso i suddetti casi. Ma ciò non toglie neanche che ognuno gioisca o patisca per quel che ha o non ha.
Io non ho i denti in asse, la mia bocca frana, la mia filosofia mi attanaglia e la mia vita mi appare da spavento. Che mi succederà stavolta di brutto se non salvo la mia dentatura?
Tosca Pagliari
Buon Carnevale
a chi si sente strano
a chi si sente normale
a chi si sente male
a chi si sente sano
a chi la maschera ce l’ha
sempre in dotazione
a chi la mette in qualche situazione
a chi invece ci mette sempre la faccia
anche quando par che dispiaccia.
Buon Carnevale a grandi e bambini
con molti salti e pochi inchini
con molta pazienza
e misurata riverenza.
Buon Carnevale che oggi c’è
poi tutto fugge e più non è.
Tosca Pagliari (febbraio 2023)
Da tanto tempo che ti allevo
sei sempre come già ti vedevo.
T’immagino tra i miei alunni
come loro hai dieci anni.
T’immagino in buffe mosse
con gli occhi verdi e le trecce rosse
lentiggini spruzzate
su gote arrossate
il naso in aria e pensieri misteriosi,
silenziosa, amante dei riposi.
Ti vedo vestita con un grembiule
a fiori arancioni
rubato dal fondo del baule
dalle più folli delle mie immaginazioni.
Sei per sempre la mia piccina
con quei sospiri e quella vocina
così ammaliante che ottiene
tutto quel chiede da chi ti vuole bene.
Sei morbida e scontrosa
docile e furiosa
furba e diffidente
per niente ubbidiente.
Sei sostanza del tuo essere, ma io ti trasfiguro
ti dipingo come credo sul muro
del giardino della mia fantasia
ti liscio gattina
e ti coccolo bambina
poi non so più quel che tu sia.
M. M. M. ( Mamma, Maestra, Matta). Alias Tosca Pagliari ( febbraio 2023)