Elisabetta era una bimba tutta riccioli biondi, occhi chiari, gote paffute e indole gioconda. Proprio la bimba che tutti avrebbero voluto, la bambolina perfetta tutta moine e complimenti, una bimba di zucchero e miele. Carlotta era un’altra bimba, di quelle da tenere alla larga, troppo curiosa, troppo vivace, troppo magra, da continui suggerimenti di ricostituenti e occhiate tra il compassionevole e l’insopportabile. Eppure erano tutte e due belle eleganti al matrimonio di parenti comuni. Parenti anch’essi tutti messi in ghingheri, ma non tutti al massimo del loro fascino. Elisabetta stava tranquilla in posa tra un’avvenente signora bruna e un macilento signore un po’ avanti con gli anni. Carlotta, che amava catalogare tutti, li definì sua madre e suo nonno e ne dedusse che Elisabetta doveva senz’altro somigliare al padre perché con quei due non aveva proprio nulla in comune.
Improvvisamente lo vide il padre di Elisabetta, era un signore giovane, molto distinto, un’aria impeccabile nella tenuta elegante. Indossava giacca e pantaloni blu scuro, camicia bianca coi polsini d’oro e una cravatta di seta azzurra della stessa tonalità degli occhi che, in fondo, era la stessa di quelli di Elisabetta.
Poi Carlotta non lo vide più, si perse a girare fra gli svariati tavoli dei commensali, tanto lei non mangiava quasi nulla e non aveva voglia di star seduta. Chiacchierò con chicchessia, diede noia, s’impigliò in una tovaglia, fece cadere dei bicchieri che si frantumarono, rischiò di far rompere il collo a qualche cameriere scorrazzando di qua e di là, ma al taglio della torta fu al suo posto. La torta era monumentale illuminata da girandole di fuochi d’artificio. Forse perché lo spettacolo era attraente o forse perché era stanca rimase al suo posto, o forse ancora perché si era accorta che era un posto panoramico, dal suo tavolo si dominava tutta la scena, tutti gli altri tavoli, tutti gli altri invitati. Era il tavolo dei testimoni di nozze e, come quello degli sposi, era stato concepito per avere maggior spicco e tenere tutta la situazione sotto controllo.
Così Carlotta, finalmente buona, non dava più fastidio a nessuno. Con aria assorta controllava gli sposi che facevano il giro dei tavoli e distribuivano le bomboniere, poi con aria solenne tornavano al loro posto e si accorgevano di avere ancora una bomboniera nel cesto, ma per chi, chi avevano saltato? Non si capacitavano. Carlotta invece, che non perdeva una mossa se accorse. Era di nuovo lui, il signore bello e distinto con la cravatta dello stesso colore degli occhi. Aveva le mani vuote e stava come in attesa. Pensò allora di far cosa gradita nel risolvere l’inghippo, puntò il dito e, con voce argentina, gridò sovrastando musica e chiacchiere:
_ Manca a quel signore laggiù.
E ancora più agitata e con ancora un tono più alto continuò:
_ Quel signore laggiù, il padre di Elisabetta!
Calò un silenzio raggelante e tutti la guardarono come un piccolo mostro. Sua madre le mollò uno schiaffo, ma lei piagnucolando imperterrita:
_ E vero, solo il padre di Elisabetta è rimasto senza bomboniera.
Ancora silenzio più gelido e un altro schiaffo della madre:
_ Smettila, non è il padre di Elisabetta.
Carlotta piangendo e gridando con tutta la sua logica infantile:
_ Ma se è uguale!
Gli sposi, per l’imbarazzo, si baciarono. Gli invitati, per l’imbarazzo, pensarono bene di sovrastare lo scomodo piagnisteo con scrosci di applausi. I camerieri s’affrettarono a ritirare gli avanzi della torta monumentale, la cui panna pareva volersi sciogliere anch’essa dall’imbarazzo. I genitori di Carlotta, sempre per lo stesso per l’imbarazzo, pensarono d’approfittare per congedarsi e quando furono fuori da occhi e orecchie indiscrete giù un altro ceffone:
_ Ma che ti è saltato in mente di dire che era il padre di Elisabetta!
Allora Carlotta tirando su il moccio dal naso ebbe improvvisamente un dubbio:
_ Perché non è vero?
I genitori si guardarono in faccia e furono più concilianti:
_ Ma non lo doveva sapere nessuno.
_ Che cosa?
_ Che quello era il papà di Elisabetta!
_ Perché?
_ Perché è una cosa che sanno tutti, ma non si deve sapere in giro.
La peste Carlotta ebbe un moto di profondo smarrimento, non trovava un nesso logico. E se un adulto non trova un nesso logico in un bambino può anche andare, ma non è possibile che un bambino non trovi un nesso logico in un adulto, anzi in due adulti, anzi, peggio ancora, nei suoi stessi genitori. Perciò rimase attonita, smarrita, con un’aria così mansueta da fare, per la prima volta, da che aveva cominciato insopportabilmente a parlare e camminare, finalmente tenerezza, la tenerezza di una bambina. Sicché i suoi genitori, commossi e contenti, scoppiarono a ridere. E risero tanto finché Carlotta non tornò ad essere Carlotta:
_ Ma papà, ma mamma, ma allora è come quella storiella dei vestiti nuovi dell’Imperatore!
Risero ancora, stavolta tutti insieme, si scompisciarono proprio dalle risate e a un certo punto Carlotta, ancora peggio della Carlotta che era già stata e, con la faccia più furba che avesse mai posseduto, dette l’ultima sentenza:
_ Però è uguale, ugualissima, precisa, ma proprio precisa Elisabetta a suo padre!
Li guardò con gli occhi più luccicanti, di tutti i suoi lampi di monelleria e concluse baciandosi da una parte e dall’altra il medio e l’indice allineati:
_ E giuro che non lo dirò mai a nessuno!
L’ipocrisia è un’arte, ci vuole talento.
Tosca Pagliari
Osservo che è un momento di grande produttività. Buona giornata e buone ispirazioni.