Volevo buttare via tutto il paio per un buco in uno dei due calzini. Bucato, via! Poi ho provato un senso come di pena. L’altro era ancora intatto e strutturalmente stavano bene tutti e due. Ago e filo e l’ho ricucito. Mentre davo i punti, per riunire i lembi dilaniati e distaccati, anche i miei pensieri si cucivano uno dopo l’altro. Stavo rammendando ( etimologia di: dare ammenda, riparare un danno) e pensavo a come spesso si buttano via i rapporti tra le persone per non sapere scusare o chiedere scusa, per non sapere compatire gli errori, per non sapere trovare un “punto” d’incontro così come dà il punto l’ago, che s’infligge e punge, ma cuce e ripara. Allora ho riflettuto sul fatto che un tempo la gente era più incline a rammendare tessuti e rapporti umani. Era gente che conosceva l’arte dell’umiltà, non faceva sprechi, non ostentava appariscenze. S, perché tutto finisce per traslare da un significato ad un altro, il fare diventa diventa pensiero, l’abitudine si fa consuetudine. Viviamo nell’era del comodo, del sempre nuovo, del tutto perfetto e lo applichiamo ad ogni evenienza.
Ti arriva un dolore e lo scansi perché non ce la fai a sopportarlo. Lo congeli da qualche parte e fingi che non ti appartenga. Non ti senti più forte e neanche vigliacca, lo rimuovi e basta per proseguire. Poi nel tempo arrivano tutti gli altri e più o meno fai la stessa cosa. Succede che un debole raggio di sole, sotto forma d’immagine o di parola o di qualsivoglia altro effetto rievocativo, te lo scongeli e te lo ripresenti caldo caldo e terribilmente attuale. Allora eccolo di nuovo lì e ti trova più sprovveduta che mai. Nessuno può neanche comprenderti perché i fatti ormai sono inimmaginabili al resto del mondo. È lì che capisci pienamente come risparmiarsi il dolore sia un atto di coraggiosa e rischiosa economia di vita.