L’ULTIMO TRENO

 

Il tempo va a farsi freddo
ora che molti se ne sono andati
ed altri se ne andranno.
Il tempo va a farsi solo.
Uno squarcio
che continuerà a dilatarsi
finchè si resterà
alla stazione
a guardare le partenze
in attesa del treno
senza valigie
senza peso
senza più tempo.

Tosca Pagliari ( settembre 2013)

3 thoughts on “L’ULTIMO TRENO

  1. Direttissimo
    Dino Buzzati, 1958

    «Quel treno, prendi?»
    «Quello».
    La locomotiva era terribile sotto la tettoia fumosa, sembrava un toro inferocito che scalpitasse per la smania di partire.
    «Con questo treno viaggi?» mi chiedevano. Incuteva infatti paura, tanto frenetica era la tensione del vapore acqueo che filtrava dalle fessure sibilando.
    «Con questo» io risposi.
    «E per dove?». Io dissi il nome. Non l’avevo pronunciato mai, neppure parlando con gli amici, per una specie di pudore. Il grande nome, il massimo, la destinazione favolosa. Di scriverlo qui non ho il coraggio.
    Allora mi guardarono chi in un modo chi in un altro: con ira per la mia improntitudine, con scherno per la mia pazzia, con pietà per le mie illusioni. Qualcuno rise. D’un balzo fui nella vettura. Spalancai un finestrino, cercai nella folla volti amici. Non un cane.
    E dài allora, o treno, non perdiamo un minuto, corri galoppa. Signor macchinista, per piacere, non essere avaro di carbone, da’ fiato al leviatano. Si udirono dei soffi emessi con precipitazione, i vagoni ebbero un fremito, i pilastri della pensilina si mossero, dapprima lentamente, ad uno ad uno mi sfilarono dinanzi. Poi case case stabilimenti gasometri tettoie case case ciminiere androni case case alberi orticelli case tran-tran tran-tran i prati la campagna le nuvole viaggianti nell’aperto cielo! Dai, macchinista, con l’intera potenza del vapore.
    Dio, come si correva. A questa andatura ci voleva poco io pensavo, a raggiungere la stazione 1 e poi la 2, la 3, la 4 e poi la 5 che era l’ultima, e sarebbe stata la vittoria. Attraverso i vetri io compiaciuto guardavo i fili elettrici che si abbassavano, finché facevano uno scarto, tac, risalendo alla primitiva posizione, questo a causa del palo successivo: e il ritmo accelerava sempre più. Ma dinanzi a me, sul divano di velluto rosso, sedevano due signori con la faccia di coloro che se ne intendono di treni, i quali consultavano continuamente l’orologio e scuotevano il capo brontolando. Allora io, che sono un tipo un po’ apprensivo, presi il coraggio a due mani e domandai: «Se non sono indiscreto, signori, perché scuotete così il capo?».
    «Scuotiamo il capo» mi rispose il più anziano dei due «perché questo maledetto treno non marcia come sarebbe il suo dovere. Di questo passo arriveremo con un ritardo spaventoso».
    Io non dissi niente ma pensavo: «Mai contenti, gli uomini; questo treno è addirittura entusiasmante per vigore e buona volontà, sembra una tigre, questo treno corre come probabilmente nessun treno è mai riuscito a correre, eppure eccoli qua, gli eterni viaggiatori che si lagnano». Intanto le campagne, da una parte e dall’altra, fuggivano con meraviglioso slancio e la lontananza alle nostre spalle ingigantiva.
    Difatti la stazione numero 1 si presentò prima che me lo aspettassi. Controllai l’orologio. Eravamo in perfetto orario. Qui, secondo il programma, io dovevo incontrare l’ingegnere Moffin per un affare importantissimo. Scesi di corsa, mi affrettai, come previsto, al ristorante della prima classe; dove infatti c’era il Moffin che aveva appena finito di mangiare.

    Lo salutai, mi sedettì, ma lui non accennava minimamente al nostro affare, parlava del tempo e di altre cose indifferenti come se avesse dinanzi a sé un immenso spazio disponibile. Ci vollero buoni dieci minuti (e ne mancavano appena 7 alla partenza) perché si decidesse a tirar fuori dalla busta di pelle gli incartamenti necessari. Ma si accorse che io guardavo l’orologio «Ha fretta, per caso, giovanotto?», mi chiese non senza ironia. «A me, per essere sincero, non piace trattar gli affari con l’acqua alla gola…»
    «Giustissimo, ingegnere illustre», osai, «ma il mio treno fra poco riparte e… »
    «Quando è così», fece lui raccogliendo i fogli con un energico gesto delle mani, «quando è così, sono dolente, dolentissimo, ma… ne riparleremo, se mai, quando lei, caro signore, sarà un poco più comodo». E si alzò.
    «Mi scusi», balbettai, «la colpa però non è mia. Sa, il treno».
    «Non importa, non importa», disse, sorridendo con superiorità. Feci appena in tempo a raggiungere il mio treno che si rimetteva lentamente in moto. «E pazienza» io pensavo «sarà per un’altra volta, quello che conta è di non perdere la corsa».
    Volammo attraverso le campagne e i fili telegrafici danzavano su e giù con quei loro soprassalti da epilettico, si vedevano praterie sconfinate e sempre meno case, sempre meno, perché ci inoltravamo nelle terre del nord, le quali si aprono a ventaglio verso la solitudine e il mistero.
    I due signori di prima non c’erano più. Nel mio scompartimento sedeva un pastore protestante dall’aspetto mite, che tossiva. E prati e boschi e acquitrini, mentre dietro di noi la lontananza si gonfiava con la potenza di un rimorso.
    A un tratto, non sapendo cosa fare, guardai l’orologio e subito anche il pastore protestante, fra un colpo di tosse e l’altro, fece lo stesso; e scosse il capo. Ma questa volta non domandai il perché: purtroppo il perché io lo sapevo. Erano le 16.35 e già da un quarto d’ora saremmo dovuti essere arrivati alla stazione 2, la quale neppure si intravedeva all’orizzonte.

    Alla stazione 2 doveva aspettarmi la Rosanna. Quando il treno arrivò, sulla banchina c’era molta gente. Ma Rosanna non c’era. Avevamo un ritardo di mezz’ora. Saltai a terra, attraversai la stazione, affacciandomi al piazzale. E allora in fondo al viale, lontanissima, avvistai la Rosanna che se ne andava un poco curva.
    «Rosanna, Rosanna!» chiamai a tutta voce. Ma il mio amore era oramai distante. Non si voltò neanche una volta, e io vorrei sapere: umanamente parlando, potevo io correrle dietro, potevo abbandonare il treno e tutto quanto? Rosanna scomparve in fondo al viale, con una rinuncia in più io risalii sul direttissimo e via, attraverso le pianure boreali, verso ciò che gli uomini chiamano il destino. Che importava l’amore, dopo tutto?
    Camminammo ancora giorni e giorni, i fili elettrici di fianco alle rotaie facevano la loro danza nevrastenica. Ma perché il rombo delle ruote non aveva più il bell’impeto di prima? Perché all’orizzonte gli alberi si attardavano svogliati invece di scattare via come lepri colte di sorpresa?

    Alla stazione numero 3 ci sarà stata appena una ventina di persone. Non vidi il Comitato che doveva venire a festeggiarmi. Sulla banchina chiesi informazioni. «Non è venuto per caso un Comitato così e così» domandai «uomini e donne con la banda e le bandiere?»
    «Sì, sì, è venuto. Ha aspettato un bel pezzo, anche. Poi ne ha avuto abbastanza e se ne è andato».
    «Quando?»
    «Saranno tre quattro mesi fa» mi fu risposto. In quel mentre si udì un lungo fischio perché il treno ripartiva. Coraggio, allora, in marcia. Il direttissimo arrancava con tutte le forze disponibili, certo non era più la travolgente galoppata di una volta. Il carbone difettoso? L’aria diversa? Il freddo? Il macchinista stanco? E la lontananza dietro di noi era una specie di abisso che a guardarlo veniva la vertigine.
    Alla stazione numero 4, lo sapevo, doveva esserci la mamma. Ma quando il treno si fermò le banchine erano vuote. E nevicava.

    Mi sporsi a lungo dal finestrino, guardai intorno e stavo per richiudere deluso, quando riuscii a vederla: nella sala d’aspetto, rincantucciata su una panca, tutta avvolta in uno scialle, che dormiva. Misericordia, come era diventata piccola. Saltai dal treno e corsi ad abbracciarla. Stringendola, mi accorsi che non pesava quasi più: un mucchietto fragile di ossa. E la sentivo tremare per il freddo.
    «Dimmi, è un pezzo che mi aspetti?»
    «No, no, figlio mio» e rideva felice «non sono neanche quattro anni». Così dicendo non guardava me, bensì fissava il pavimento intorno, quasi cercasse qualche cosa.
    «Mamma, cosa cerchi?»
    «Niente… Ma le tue valige? Le hai lasciate sulla banchina, fuori?»
    «Sono sul treno», dissi.
    «Sul treno?» e un ombra di desolazione le calò come un velo sulla fronte. «Non le hai ancora scaricate?» «Ma io…» non sapevo proprio come dirglielo.
    «Vorresti dire che riparti subito? Che non ti fermi neanche un giorno?»
    Tacque, sgomenta, e mi guardava.
    Io sospirai. «E va bene! Lascerò che il treno se ne vada. Adesso corro a prender le valigie. Ho deciso. Rimango qui con te. Dopo tutto, mi hai aspettato quattro anni».
    Di nuovo, a queste mie parole, la faccia della mamma si cambiò. Tornarono l’allegrezza ed il sorriso (il quale però non emanava più luce come prima).
    «No, no, non andare a prendere i bagagli, mi sono espressa male» supplicò. «Io scherzavo, sai. Io ti capisco. Non puoi fermarti in questo povero paese. Per me non val la pena. Per me non devi perdere neanche un’ora è molto meglio che tu riparta subito. Assolutamente. E’ il tuo dovere… Desideravo una sola cosa: rivederti. Ti ho rivisto, adesso son contenta…»
    Chiamai: «Facchino, facchino!». Un facchino spuntò immediatamente. «Ci sono da scaricare tre valigie!».
    «Macché valigie» ripeté la mamma «Un’occasione come questa non tornerà mai più. Tu sei giovane, hai da fare la tua strada. Presto, sali in vettura. Va’, va’» e sorridendo, con fatica immensa, mi spingeva debolmente verso il treno. «Per carità, fa’ presto, stanno chiudendo gli sportelli». Non so come, con tutto il mio egoismo, mi ritrovai nello scompartimento e mi sporgevo dal finestrino aperto, gesticolando per gli ultimi saluti.
    Fuggendo il treno, lei ben presto divenne ancora più piccola di quello che effettivamente era, una figurina afflitta e immobile sul deserto marciapiedi, sotto la neve che cadeva. Poi divenne un punto nero senza volto, una minuscola formica nella vastità dell’universo; e subito svanì nel nulla. Addio.

    Con un ritardo di anni e anni accumulati, siamo così di nuovo in viaggio. Ma per dove? Cala la sera, i vagoni sono gelidi, non c’è rimasto quasi più nessuno. Qua e là, negli angoli degli scompartimenti bui, siedono degli sconosciuti dalle facce pallide e dure, che hanno freddo e non lo dicono. Per dove? Quanto è lontana l’ultima stazione? Ci arriveremo mai? Valeva la pena di fuggire, con tanta furia, dai luoghi e dalle persone amate? Dove, dove ho messo le sigarette? Ah, qui nella tasca della giacca. Certo, tornare indietro non si può. Forza, dunque, signor macchinista. Che faccia hai, come ti chiami? Non ti conosco, né ti ho mai visto. Guai se tu non mi aiuti. Sta’ saldo, bel macchinista, butta nel fuoco l’ultimo carbone, falla volare questa vecchia baracca cigolante, ti prego, lanciala a rotta di collo, che assomigli almeno un poco alla locomotiva di una volta, ti ricordi? Via nella notte, a precipizio. Ma in nome di Dio non mollare, non lasciarti prendere dal sonno. Domani forse arriveremo.

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